Storia dell'Istria e della Dalmazia. L'impronta di Roma e Venezia, le foibe di Tito e l'esodo degli italiani.
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l noto giornalista e scrittore Paolo Scandaletti ha dato alle stampe la sua ultima fatica: Storia dell’Istria e della Dalmazia – L’impronta di Roma e di Venezia, le foibe di Tito e l’esodo degli italiani, Edizioni Biblioteca dell’Immagine IX, 234 pag. con 90 illustrazioni, 14 euro. Lucio Toth, leader storico degli esuli, ha scritto: «E’ uno stupendo excursus storico dell’Istria e della Dalmazia, dall’antichità alle tragedie del ’900, ad oggi». Questi i contenuti.
L’ingresso della Croazia in Europa e la Serbia che incalza riportano alla memoria dell’opinione pubblica la tragedia adriatica: quella dei 350mila italiani che hanno dovuto abbandonare l’Istria e la Dalmazia – vissuto, averi, attività – sotto l’incalzare terroristico dei partigiani di Tito. Coi nostri libri di scuola ancora zitti.
Terre affacciate sull’Adriatico, legate da sempre alla sponda italiana. I Romani, risaliti da Ravenna e piazzate le roccaforti a Padova e Altino, si dirigono verso Nordest a fondare Aquileia, 181 anni prima di Cristo. Quel porto fluviale, protetto dalla laguna di Grado, da cui orienteranno i traffici su Costantinopoli e Alessandria d’Egitto, diventa in breve la terza città dell’Impero. Di là irradiano le loro strade verso le Alpi e i Balcani; partono alla conquista dell’Istria e della Dalmazia, per fondarvi nuove città dall’impronta inconfondibile come Pola, con l’Arena che ancora vediamo, Zara e Spalato, la patria di Diocleziano.
Sette secoli e arriverà Bisanzio, poi i Franchi e il sistema feudale. Da prima del Mille e per ottocento anni, la storia di queste terre meravigliose sarà strettamente legata a quella della Serenissima Repubblica di san Marco. Venezia tutela i suoi traffici dando sicuri approdi alle navi in rotta verso i ricchi mercati del Mediterraneo orientale. In cambio offre protezione dai pirati e occasioni di sviluppo economico e culturale. Accortamente ripristina o conserva le autonomie locali, sia pure sotto l’occhio vigile dei suoi nobilomeni e contrassegnando col Leone alato le porte delle città e i palazzi della Loggia. Come Vienna, apre le porte agli slavi, braccia per l’agricoltura ad insediamento lento e pacifico ma invasivo.
Dopo il crollo della Repubblica del 1797 e il fulmineo intermezzo di Napoleone, subentrano gli Austriaci con la loro corretta amministrazione, fino all’epilogo della Grande Guerra. Allorché l’Istria viene assegnata all’Italia e la Dalmazia alla neonata corona jugoslava con l’eccezione di Zara, il regime fascista impone con la forza la predominante italiana nei territori dove gli slavi – chiamati a mano a mano da Aquileia, Venezia e Vienna – erano diventati ormai maggioranza e li fa emigrare. Perfino là dove molte comunità di diversa etnia convivono pacificamente, senza alcuna prepotenza.
Del 1941 è l’attacco italo-tedesco alla Jugoslavia e la nascita del movimento resistenziale, il crollo del regno e la guerra civile. A guerra ormai perduta, nel ’45 la ritirata rabbiosa dei nazisti; alla cui violenza fa seguito quella delle brigate del maresciallo Tito, che continuano a identificare tutti gli istriani e i dalmati col regime di Mussolini. Deportazioni, annegamenti e foibe costringono i cittadini di lingua e cultura italiana ad abbandonare precipitosamente tutto. Due i nuovi documenti che impressionano: il rapporto dell’ufficiale degli Alpini Mario Maffi sulle sei foibe da lui esplorate nel ’57, finora coperto dal segreto militare; e il manuale per la pulizia etnica ad uso dei miliziani di Tito, redatto dal nobile bosniaco Vaša Čubrilović, in seguito ministro a Belgrado.
Fra il ’43 e il ’56 gli italiani lasciano dunque la terra in cui sono nati, e dove quasi tutti hanno bene operato, nelle mani di sloveni e croati; insieme ai beni e alle proprietà, a grandi realizzazioni e ricordi spesso felici. Con le lacrime e il dolore per un’amputazione così drastica, su mezzi di fortuna e tra mille peripezie approdano a Trieste, Udine e Venezia; poi in 140 campi di raccolta non certo confortevoli, spesso ospitati con insofferenza. Sulle loro teste si giocava infatti l’immane partita della spartizione, fra i vincitori, delle grandi aree mondiali di influenza: la Guerra fredda fra l’Occidente angloamericano e l’impero sovietico, nella quale Tito prendeva le distanze da Mosca e dai suoi satelliti, spalleggiato da Londra e New York. E quella della lotta politica a Roma, coi comunisti nel governo.
I 350mila giunti in Italia, come gli emigrati in America e in Australia, si sono integrati nella vita nazionale, sovente con iniziative di grande significato e conseguendo meritata notorietà. Le associazioni che li rappresentano, non sempre in sintonia, hanno avanzato più volte le loro rivendicazioni verso Lubiana e Zagabria. Con scarso esito, in verità. Fino alla via della riconciliazione che i tre presidenti Napolitano, Türk e Josipović hanno aperta nel luglio del 2010, celebrata con il grande concerto di Muti in piazza dell’Unità a Trieste.
La comune patria europea offre ora ulteriori ragioni per la comprensione fra popoli confinanti. Ma sulle famiglie degli esuli grava sempre la quasi nulla memoria che i concittadini italiani hanno di queste tragiche vicende. Una storia illustre, di oltre 2000 anni, interrotta brutalmente nel nome di un’utopia politica – quella comunista – che ha dimostrato la sua disumanità. «La profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esuli è vivere con una memoria che non serve a nulla», annota Camus ne La peste.
Raccontano di queste storie persone e luoghi anche 90 immagini, ricavate da Carlo Yriarte nel suo viaggio in Istria e Dalmazia nel 1876 e pubblicate da Treves a Milano nel 1883.